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ALESSIO

Rilevanza turistica
25/03/2013 14:15:49
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La strada si avvitava su un colle disegnando una spirale di chilometri. In cima alla salita, fra le tracce stinte di un posto di frontiera, svettava un moderno obelisco di cemento, simbolo dell’unione fra le due Germanie e ricordo indelebile di una separazione dolorosa ed ancora riecheggiante. Da quel punto in poi la cartina stradale diventava meno dettagliata. Nessuna segnalazione di rilevanza turistica. Si limitava a riportare le strade, come se nell’ex DDR non ci fosse nulla da vedere.
Effettivamente tutto cambiava. La strada proseguiva assecondando l’andamento del territorio, senza ponti né gallerie, e, nell’asfalto fratturato, vaste aperture lasciavano intravedere la vecchia pavimentazione in ciottoli di fiume. L’atmosfera irreale della foresta tedesca si stemperava nell’odore dolciastro dei campi di patate. Il sibilare delle BMW si mescolava al frinire delle Trabant, vetturette con la carrozzeria di plastica ed il motore a due tempi. Supermercati, centri commerciali, teatri, sale cinematografiche, discoteche ed alberghi trovavano posto nei colossali ruderi delle industrie di stato, mostri grigi trasformati in strutture sgargianti, capienti, vive, ma comunque inquietanti.
Il territorio dell’ex DDR era un immenso cantiere a cielo aperto, il fragore di un’operosità frenetica rombava nell’aria e dovunque si indovinavano gru e pennacchi polverosi. Spesso le strade erano interrotte per lavori, ma chiedere informazioni per percorsi alternativi era impossibile, non incontrai un solo tedesco dell’est che conoscesse l’inglese. Le donne avevano un’aria semplice e genuina, portavano in volto il pallore di una vita senza agiatezze. Indossavano grossolani abiti fiorati lunghi fino al ginocchio chiusi in vita da una stringa ricavata dalla stessa stoffa, una specie di uniforme per casalinghe.
Percorrevo un viale che attraversava l’ennesimo paesino spoglio, grigio e polveroso. Una bella ragazza, animata dal passo svelto di chi è affardellato, attirò la mia attenzione. Riuscii a scorgerla da lontano, fra la gente, e a non perderla di vista fino ad incrociarla. Indossava il solito abitino da casalinga, ma i fiori, piccoli e colorati, spiccavano sull’elegante sfondo bordeaux. In quel grigiore spiccava come il cappottino rosso della bambina di Schindler’s list. Portava una grossa cesta tenendola premuta conto l’anca con una sola mano. Il braccio libero scandiva l’incedere muliebre ed inconsapevolmente superbo delle belle creature. Quell’andatura fatta di passi brevi e frequenti metteva in moto le sue carni, e la veste, tesa dal peso sul fianco, conteneva a stento voluttà e floridezza. Era da un po’ di giorni che facevo il turista a tempo pieno, fermarmi ad ammirare tutte le meraviglie che incontravo era ormai un’abitudine. Senza neanche rendermene conto mi ritrovai fermo a guardarla manco fosse una chiesa gotica o un panorama montano, dovetti reprimere l’istinto di metter mano alla fotocamera. La ragazza decise di fermarsi a sua volta e mi guardò con una scherzosa aria di sfida. Cercai di recuperare un contegno distogliendo lo sguardo verso il nulla, senza riuscire a cancellare dal mio volto quella stupida espressione a bocca aperta da meravigliato dal mondo. Si avvicinò illuminata dal compiacimento e mi porse una pagnotta presa dalla cesta. Il pane era caldo e profumava di buono, o almeno credo, lei aveva un sorriso da bambina che avrebbe sciolto il pack e reso dolce il cianuro. Avrei voluto dirle qualcosa, ma cosa? e in quale lingua? Certo, avrei potuto ringraziarla, anche con un semplice gesto, ma lo stato di sopravvenuta demenza temporanea da tempesta ormonale me lo impedì. Lei flautò un incomprensibile saluto e mi lasciò lì, con la pagnotta in mano, portandomi via un organo interno. Ne sono sicuro perché ho avuto un senso di vuoto nel petto e nell’addome che mi è durato per molto tempo.
Ripresi a spingere sui pedali cercando di dimenticare quell’episodio nel tentativo di liberarmi dal senso di inadeguatezza che mi aveva aggredito. Dopo poco smisi di pedalare lasciando scorrere la bici per inerzia. Un lago, una panchina, la mia stanchezza, una pagnotta calda, l’emozione che ancora vibrava nello stomaco, c’erano tutti gli ingredienti per strappare qualche minuto stanziale al frenetico viaggiare di quei giorni. Mi sedetti su quella panchina aggredita dalla vegetazione spontanea, la stessa vegetazione che aveva scomposto la pavimentazione del marciapiede. L’artefice di quel piccolo disastro era una inquietante pianta lacustre costituita da rami violacei, abilissimi nell’infilarsi negli anfratti e nell’avviluppare gli oggetti per poi distruggerli per costrizione, un autentico demolitore vegetale, lento ma inesorabile. Il cielo grigio e fumoso si specchiava nell’acqua facendone un posto triste e cupo. A riva alcuni rifiuti popolati dal muschio assecondavano l’impercettibile moto ondoso e contornavano di squallore il lago meno bello d’Europa.
Mentre affondavo i denti nella fragranza del pane fresco comparve una coppia di cigni. Non saprei dire chi fosse il maschio e chi la femmina, a dire il vero non sono nemmeno in grado di escludere l’omosessualità, so soltanto che erano meravigliosi. Presi singolarmente sarebbero stati dei bellissimi esemplari, e basta, ma insieme rappresentavano uno spettacolo talmente commovente e disarmante da eclissare lo squallore che li circondava. Eleganti e maestosi, giocavano, scherzavano, si amavano, si completavano, godevano pienamente della loro vita semplice e frugale. Allungai la mano verso la borsa determinato a prendere la fotocamera per fissare quegli istanti. Nel recuperare la borraccia, che nel frattempo era caduta sotto la panchina, scorsi un fiore di dimensioni eccezionali e di straordinaria bellezza. Ero totalmente sconvolto, quello schifo di pianta distruttrice e priva di foglie aveva deciso di far sbocciare un unico, magnifico fiore nel posto meno raggiungibile e meno visibile, quasi avesse pudore di tanta bellezza. Lasciai perdere la macchina fotografica e continuai a godere di tutti i tesori che quell’angolo di mondo serbava.
Il bello è in ogni posto, e non sempre è segnalato da una cartina.

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Una striscia di Gaza lunga come da qui a Plutone
23/03/2011 14:13:19
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Cos’è un ciglio di strada? Il margine della strada. E poi? Il posto al di là dell’asfalto e al di qua del guard-rail. E poi? Il posto dove, un giorno, la macchina mi ha lasciato a piedi. E poi? Che ne so! Il posto dove mettono i cartelloni pubblicitari? Se solo per una volta tu fermassi l’auto sul ciglio della strada, non perché hai sentito uno strano rumore dal cofano o perché devi pisciare o perché guidi da cani e al bambino viene da vomitare, e nemmeno perché c’è un panorama fantastico. Se provassi, così, senza una ragione, ad evadere da quella confortevole gabbia semovente comprata a rate. Ma non in corrispondenza di una piazzola di sosta, lì lo fanno tutti. E nemmeno quando sei in vacanza e non hai altro da fare, in quel momento non sei abbastanza te stesso, e non sei abbastanza incazzato, non saresti critico neanche su tua suocera. Fermati mentre vai al lavoro, un giorno che non sei in ritardo, in quel posto che sai, quello che quando ci passi pensi, non sai bene a cosa, non sai bene perché, ma quel posto ti fa pensare. Fermati. Scendi. Vivi. Vedrai che il ciglio di strada che percorri tutti i santi giorni non è una quinta di teatro muta e inodore. Anzi, sa di terra e asfalto, merda e gas combusti. Non sei sorpreso, no, piuttosto infastidito. Non rientrare in macchina, resisti, anche se sei in ritardo e la camicia ti si appiccica addosso, rinuncia alla tua cattività per qualche minuto. Prova a respirare senza filtro antipolline, tranquillo, il ricircolo dell’aria non appannerà i vetri, respira. Senti un cane che abbaia in lontananza, pensi che presto verrà ad aggredirti e che è l’unico essere vivente nel raggio di 3 km. Povero illuso, sappi che ci sono 37 lucertole, una coppia di bisce ed una intera famiglia di ricci di campagna che osservano ogni tua mossa, senza contare un migliaio fra mosche, api terricole, cimici del fieno e tafani e, per tua fortuna, smidollato come sei, nessuna di queste orrende bestie può rappresentare un pericolo. Ma tu, animale evoluto, riesci a vedere solo la colonia di buste di plastica che popola la vegetazione spontanea.
Nel frattempo il cane si è avvicinato e ti guarda. Coda dritta, un orecchio teso e l’altro floscio. Adesso saltella sulle zampe anteriori senza piegarle. Non chiederti perché sei lì, aspetta, non è il momento. Prova a fare qualche passo lungo il ciglio della strada, prova a guardare il mondo con gli occhi di quel cane. Eccola, il rombo è forte, minaccioso, prepotente, è solo un’utilitaria ma a 100 orari fa paura. C’è una buca che la gomma asseconda schioccando una frustata sull’asfalto, il botto ti scuote anche se te lo aspetti, come quelli di natale. Sei investito da un alito pesante, umanamente gelido, termicamente torrido, chimicamente velenoso. Osservi quella rumorosa scatola d’acciaio nel suo arrancare contro natura su un nastro di bitume appiattito ad arte da altri animali come te, evoluti, e te ne vergogni. Prova ad attraversare la strada, ma attento, qui le auto sfrecciano sul serio, non è come attraversare in città. Cento metri più avanti c’è la carogna di un cane di media taglia gonfia di putrescenza, sembra una zampogna, poco più in là se ne indovina un’altra, più vecchia, ridotta a uno zerbino. Sono le tracce di una guerra combattuta tutti i giorni, dappertutto, senza bollettini, senza echi, senza morti né feriti che siano degni di nota. Anche il movente è quello delle guerre, il possesso di un territorio, il diritto allo sfruttamento ed all’occupazione. Questa è una strada fatta dagli uomini per farci correre le proprie scatole di ferro. E’ così da un secolo e così sarà per l’eternità.
Ti accorgi che lungo i margini il tappeto d’asfalto è corroso, perforato da fili d’erba ed infiorescenze, aggredito dal lento ma inesorabile metabolismo della natura che, a dispetto della nostra indole conservatrice, pone fine ad ogni cosa allo scopo di perpetuarsi. Il fine è l’eternità, comunque, solo vista in un modo diverso, meno individualista, in un contesto più ampio ed armonico, più naturale.
Allora, cos’è un ciglio di strada? Un limite, una linea di confine, una trincea. E poi? Un immondezzaio, una discarica a cielo aperto, una latrina, una fossa comune. E poi? E’ una corsia che non c’è, riservata a quelli che è meglio che si scansino, ai lenti, a quelli che non tengono il ritmo, agli sfigati, alle gente ai margini, alla gente di strada che, pur chiamandosi così, non è padrona nemmeno di quella. E poi? Ci puoi trovare animali randagi, anime randagie, poveri cristi a cui piace sudare, respirare miasmi e farsi sfiorare dalle auto in corsa. E poi? Ci puoi trovare auto in avaria, gente in avaria. Ragazze che affittano il proprio involucro, sgualcite come fiori passati di mano in mano, spente e ferite come bambole vudù. E poi? Avanti, cos’è un ciglio di strada? E’ il vero limite fra l’essere umano e madre natura, il posto in cui releghiamo il mondo e, allo stesso tempo, la soglia del nostro ghetto, una striscia di Gaza lunga come da qui a Plutone.

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Lungo il fiume
23/02/2011 14:16:15
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Per un pugliese della Murgia il fiume rappresenta un mito. Le parole pesca sportiva, rafting e trota salmonata suonano esotiche come avocado, igloo e boomerang. Richiamano posti lontani chilometri, culture distanti anni luce. Da noi i fiumi si chiamano gravine e sono solchi carsici a regime torrentizio che si ricordano di essere corsi d’acqua una volta ogni vent’anni, e puntualmente ci scappa il morto. Poi abbiamo il mare a pochi chilometri, abbastanza lontano da non poterci definire gente di mare ma abbastanza vicino da conoscerlo e viverlo.
Uscivo dall’ufficio postale di Rosny sur Seine quando feci caso allo strano odore che appesantiva l’aria. Un odore che non avevo mai sentito prima, un olezzo fra muffa da infiltrazione e scarico di lavello appena sgorgato. Lungi da me il pensiero che provenisse dalla Senna, il fiume più idolatrato d’Europa teatro di pagine epiche della storia, della politica e del diritto moderno. Rimontai in bici con i polmoni a mezzo servizio. L’idea di riempire una scatola con il bagaglio in eccesso mi era venuta il giorno prima quando avevo deciso di sbarazzarmi di un po’ di roba. Un materassino ad alta densità, il treppiedi per il fornello a propano, una grossa torcia elettrica, un coltellino multifunzione in acciaio inox, un moschettone, un portachiavi, una matassa di fil di ferro, un tronchesino, un apriscatole ed un paio di scarpe. Era tutta roba nuova, sarebbe stato un peccato buttarla via, così decisi di farne dono a qualcuno.
Trovai una bella chiesetta che si affacciava direttamente sulla strada. Entrai. Nonostante le ridotte dimensioni le volte erano altissime e riccamente decorate. Provai a richiamare l’attenzione di qualcuno ma mi rispose un silenzio di tenebra. Uscii a passo svelto. Stavo assicurando la scatola al portapacchi quando una voce indefinibile ringhiò alle mie spalle. La persona più brutta che avessi mai visto, tuttora detentrice del record con un vantaggio imbarazzante sul piazzato, mi si parò davanti. Nel disperato tentativo di dissimulare il disgusto ebbi una contrazione facciale talmente fuori controllo da mandarmi qualcosa di traverso. Sarà stata la lingua o, forse, il velopendulo, fatto sta che la mia gola era ermeticamente occlusa. Avevo smesso di respirare da almeno venti secondi quando stramazzai al suolo. Immagini recondite si manifestarono davanti ai miei occhi sbarrati. Mi apparvero nell’ordine: la Madonna del Querceto che cantava Like a virgin, Moana Pozzi con l’aria insoddisfatta che, al grido di riprenditi!, mi sbatteva uno zabaione da tredici uova, e Filippo, un mio compagno di bici affetto da aerofagia cronica, l’unico ciclista al mondo che a stargli in scia si prende più vento. All’improvviso il mostro rientrò nel mio campo visivo. Indossava un mantello grigio ed un gonnone nero. Al netto dello strabismo divergente e delle opalescenze oculari ebbi la netta sensazione che mi stesse guardando il pacco, inteso come zona inguinale. Il cavo orale in atteggiamento famelico lasciava intravedere i denti marci, e per marci non intendo cariati. I denti c’erano tutti ed erano equini, ma ospitavano delle incrostazioni di color marrone con sfumature tendenti al verde. Probabilmente si trattava di formazioni organiche parassite, muschi e licheni che avevano trovato un habitat ideale per proliferare. C’era materiale per tre puntate in prima serata, Un intero ecosistema nelle fauci del mostro su Discovery Channel. L’orrore di quella visione e l’imminenza della sincope innescarono un nuovo spasmo che mi liberò la gola. Tornai a vivere.
Non ho un ricordo lucido dei momenti immediatamente successivi. Mi fermai solo dopo aver messo la distanza di sicurezza minima fra me e la nipote del gobbo di Notredame, una decina di chilometri. Tirai il fiato e cercai un modo per liberarmi della zavorra una volta per tutte. Ero davanti ad un ufficio postale, la roba era già impacchettata, decisi di spedirla a casa mia e, visto che c’ero, mi scrissi anche quattro righe. Quella di autospedirmi lettere durante i viaggi è poi diventata un’abitudine, è come tenere un diario, anzi meglio, è come ritrovare un diario smarrito in viaggio. L’odore stantio continuava a togliermi il fiato. Tendeva a diminuire quando la strada si allontanava dalla Senna, ma continuavo a non collegare la puzza col fiume.
Era l’ora di pranzo quando decisi di prendere posto in un restaurant. Il cameriere aveva modi sbrigativi ma porgeva le pietanze con una coreografia sontuosa al limite del grottesco. Avevo preso del pesce. Per un pugliese il pesce arriva dal mare, i pesci d’acqua dolce vivono nelle bocce o negli acquari e una volta defunti si buttano nel cesso. Il pesce di mare, indipendentemente dalla specie, basta buttarlo sulla brace, si rigira e si mangia. Lo si può cucinare in vari modi, condire a piacimento ma, di base, porta in sé il sapore e l’odore del mare. Quel giorno scoprii che il pesce di fiume è commestibile, almeno per qualcuno. Viene cucinato in maniera elaborata per nascondere l’odoraccio di fiume. Il mio, in particolare, aveva un odore collocabile fra l’acqua dei piatti e il porta biancheria sporca. Certo, la maestria di uno chef può far miracoli, ma perché non cimentarsi con del sughero o del cuoio, tanto il risultato sarebbe lo stesso. Nel frattempo mi feci portare una bistecca di vitello, fortunatamente non di fiume.

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Fra terra e cielo
23/02/2011 14:16:08
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Il piano della scrivania era illuminato di sbieco dalla lampada a pantografo. Amaro lucano, gelato malaga e mio fratello, più giovane e più sereno di come lo ricordassi. Mi raccontava di un viaggio a Londra con la sua prosa fluida e beffarda fatta di illazioni che diventano verità, e di evidenze smentite dall’imponderabile. Il cielo d’Inghilterra sembra più basso, hai la sensazione di poterlo toccare alzando un braccio mi disse.
Wake up! la voce di Michael si incuneò nel mio sogno. Erano le quattro e mezza di mattina. Dormivo da sette, otto minuti. Il mix di tolleranza, accondiscendenza e comprensione che mi contraddistingue mi impedì di mandarlo affanculo. Era un caro ragazzo, un inglese di Hull che avevo conosciuto al porto di Le Havre. Era arrivato con la sua Honda 1100 XX, un bolide nero che lui chiamava time machine. Mi spiegò che quattro ore prima si trovava a Montpellier, un migliaio di chilometri più a sud. Il molo era pieno di motociclisti e c’erano anche parecchi ciclisti. Le due comunità formavano gruppi ben distinti e separati, tranne noi. Ci trovammo subito simpatici e dividemmo la cabina per risparmiare sul biglietto. La piacevole serata davanti ad una tazza di thé e pasticcini al burro non lasciava presagire la nottataccia. Dire che Michael russava è un eufemismo, ragliava come un somaro della barbagia. Provai a svegliarlo: scossoni, ciabattate, pizzicotti, sputi, avrei potuto espiantargli un rene senza ottenere un attimo di silenzio.
Avevo ancora i neuroni allo stato brado quando Michael mi invitò a guardare fuori. Era tutto bianco, ebbi l’impressione che l’oblò avesse il vetro satinato. Una volta ripristinate le sinapsi, però, indovinai la sagoma del molo a non più di due metri. What is this? Fog, english fog! Vedevo la nebbia per la prima volta. Quella che giù in Puglia chiamiamo nebbia dalle parti di Portsmouth si chiama leggerissima foschia. I minuti passavano ma la sensazione di spossatezza no. La stanchezza era naturale conseguenza della notte in bianco ma il mal di ossa era davvero insopportabile. All’ennesimo giramento di testa mi portai una mano alla fronte, sentii che scottavo. Restai lì, fermo, mentre il traghetto ribolliva di attività. Michael cercò a più riprese di smuovermi dal torpore, inutilmente. Poi la sirena del traghetto mi infuse un senso di impellenza e lasciai che la concitazione del momento mi coinvolgesse. Mi rivestii con i movimenti di un automa.
Febbricitavo nella stiva quando aprirono il portellone. Una nebbia densa come zucchero filato invase l’enorme pancia del traghetto inghiottendo auto e camion. Percorsi il tunnel di luce. Mi resi conto di essere uscito dalla nave solo quando l’agente della dogana mi chiese i documenti, le porsi la carta d’identità barcollando. I’m in desease... i have fever... please, help me Era una graziosa ragazza che indossava la divisa in modo impeccabile, o almeno è quello che mi pare di ricordare. Fatto sta che mi fece cenno di proseguire per lasciare strada a chi sopraggiungeva. Percorsi una decina di metri senza trovare la forza di risalire in bici. Mi voltai per riprovare a chiedere aiuto, non trovai nulla. La nebbia aveva inghiottito tutto. Mi rassegnai a proseguire in quel mondo al contrario dove la cecità è luce, dove l’aria ha un corpo e il resto è ombra.
Procedevo ai cinque orari affidandomi al cordolo reso ben visibile dalla colorazione a strisce bianche e rosse. Non avevo neanche la più pallida idea di dove stessi andando. Avevo la cartina, si, ma per strada non c’era un’indicazione, neanche una, e mi sentivo mancare. Che ci faccio qui? Che faccio adesso? Come esco da questa situazione? Sono tante le domande che girano in testa quando ti senti perso. Nel frattempo il cordolo aveva lasciato il posto ad un normale ciglio di strada molto meno visibile. Mentre cercavo di ricostruire i riferimenti visivi un boato squarciò la nebbia. Ne venne fuori il muso di un camion contro mano che mi sfiorò. Passò talmente vicino da toccarmi il braccio sinistro. Il clacson risuonò furibondo per molti metri. Ero stordito e incredulo, non avevo visto nessuno alla guida di quel camion. Passò un’auto, anche questa contromano, la guidava un bambino di due o tre anni. In preda all’ipertermia, alle allucinazioni, alla stanchezza ed allo scoramento mi inoltrai in un campo arato. Srotolai il sacco a pelo e mi infilai al calduccio.
Le volute di nebbia aleggiavano lente, come anime in pena, ebbi la sensazione che anche la mia volesse abbandonarmi per unirsi alla processione Che cazzo di posto mi sono scelto per tirare le cuoia! Al risveglio il mondo mi sembrò un posto più accogliente, furono sufficienti pochi secondi per esorcizzare i fantasmi di un’ora prima. Ero in Inghilterra, dove si tiene la sinistra e il posto guida è a destra. In realtà quello contromano ero io. I guidatori c’erano, e se avessi guardato sul sedile affianco li avrei visti. C’erano anche le indicazioni, bastava guardare il lato giusto del cartello.
Mi risvegliai pigramente con un sorriso inestinguibile. Gli occhi che non volevano aprirsi, stanchi del bagliore della nebbia e della sua continua elusione. Poltrii, restai al caldo del sacco a pelo in mezzo a quel campo di terra smossa e profumata, in mezzo alle mie nuove, rassicuranti consapevolezze. Ero ancora sdraiato quando aprii gli occhi. Mi trovai un muro davanti. La nebbia era sospesa a cinquanta centimetri da me e formava un pannello compatto. Potevo vedere mezza bici, le ruote delle auto che correvano sulla strada. La visibilità fino a mezzo metro di altezza era perfetta, uno spettacolo surreale. Tirai fuori una mano dal sacco a pelo ed l’affondai nella coltre nebbiosa, nella nuvola Il cielo d’Inghilterra sembra più basso, hai la sensazione di poterlo toccare alzando un braccio

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Tic-tac, tic-tac
23/02/2011 14:16:02
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La bicicletta scivolava nell’oscurità fendendo il silenzio con il ronzio appena percettibile della ruota libera. Abbandonai il manubrio, raddrizzai la schiena ed aprii le braccia offrendomi all’aria fresca. Chiusi gli occhi. Mi pervase un senso di libertà. La bici continuava a scorrere sulla superficie regolare della strada, senza controllo. Un pensiero travestito da voce si insinuò in quell’idillio Ti puzza di campare? Apri gli occhi e pensa a pedalare, mentecatto! Scoprii che il mio amor proprio non ha sensibilità poetica ma modi spicci. Mi incurvai sulla bici e sorrisi.
Tornai a svolgere quella che, ormai da giorni, era diventata la mia attività prevalente, spingere sui pedali. Tic-tac, tic-tac, un movimento sempre uguale su un nastro grigio, sempre uguale pure lui. Ma che c’è di bello, di stimolante? Che c’è di tanto attraente? Un po’ di bitume che separa due posti vicini, questo è la strada. Un diritto di precedenza strappato alla natura. La voce ritornò Che diavolo ci fai qui? ed aveva il sapore amaro delle insinuazioni fondate Hai lavorato un anno intero per farti venire le vesciche al culo su questa strada dimenticata da Dio? cominciai a vedere la mia vacanza sotto un’altra luce Il resto del mondo vive, si diverte, socializza, si accoppia, e tu? Improvvisamente pedalare mi sembrava un’attività vuota, fine a se stessa, disperata, un passatempo per sfigati. Non ero più sicuro che quello fosse il miglior modo per spendere le mie sudate ferie. Quella voce beffarda aveva ragione Che ci faccio qui, in mezzo all’Europa, a fare tic-tac sui pedali? Tanto valeva pianificare una full-immersion di uncinetto, tombolo e punto croce con le bigotte dell’Azione Cattolica.
La strada moriva in una grande area di sosta isolata: automobili e biciclette parcheggiate ordinatamente in mezzo al nulla. Cos’è, uno scherzo? Mi guardai intorno cercando una spiegazione, poi scorsi in lontananza quello che sembrava un ingresso per la metropolitana. C’era un uomo in divisa dentro un gabbiotto trasparente. Buonasera. Un biglietto per Anversa, grazie Era vittima di una calvizie incipiente e della mania di nasconderla con un riporto che sfidava ogni legge della fisica e del buongusto. E’ gratis, benvenuto ad Anversa La discesa era assicurata da una ingegnosa scala mobile per ciclisti: un settore della scala aveva degli incavi per le ruote della bici. Dopo ben quattro rampe mi trovai davanti un tunnel pedonale, un enorme tubo lungo qualche centinaio di metri che passava sotto il fiume Schelda. La pavimentazione era divisa in due corsie: pedoni e biciclette. L’ululato degli pneumatici ed il rapido alternarsi delle lampade per l’illuminazione amplificavano la sensazione di velocità, dovetti resistere alla tentazione di fare un altro giro.
Sbucai in pieno centro. Anversa era bellissima. Molta bella gente dall’aria divertita immersa in un’atmosfera senza tempo. Tanti bei posti in cui trascorrere la serata ballando, ascoltando la musica o mangiando qualcosa di buono, tutti perfettamente integrati in un’architettura imponente, splendida ed originale. Mi fermai davanti ad un ristorante attirato dall’accento brindisino di due camerieri intenti ad apparecchiare i tavoli all’esterno. Uè, Puglia Uè, cumpà. Vitiluuuu... cu la bicicletta! Mena camina ca lu padrone a li paesani li tratta buenu La Trattoria da Toni era un locale volutamente pittoresco ma, allo stesso tempo, molto curato. Il menù e la carta dei vini erano degni di un ristorante di alto livello ed anche i prezzi erano tutt’altro che popolari. Il bancone ed il forno per le pizze erano allestiti in un’apertura che dava all’esterno ed il pizzaiolo, Toni, era un grande intrattenitore, maneggiava l’impasto con l’abilità di un giocoliere e non la smetteva di cantare e recitare in vernacolo. Mi fecero accomodare ad un tavolo in bella mostra con la bici al mio fianco e lì mi lasciai coinvolgere dai siparietti del pizzaiolo rubato al cabaret. Fra un proverbio, uno scambio di battute ed una canzone popolare mi portarono una gigantesca pizza a forma di bicicletta variamente condita, una bistecca ai ferri alta tre dita e due boccali di birra. Poi si avvicinò il Maitre, elegantissimo nel suo smoking anni ’20, ma lo sarebbe stato anche in canottiera, era uno di quegli uomini che hanno il dono dell’eleganza indipendentemente dall’abito e dalla situazione. Cosa gradisce come antipasto? Abbiamo... Lo interruppi incredulo No grazie. Ho mangiato fin troppo, tutto buonissimo. Mi porterebbe il conto? Lei è nostro ospite Grazie per l’ospitalità, non so come ringraziare? Grazie a lei. E scusi se l’abbiamo coinvolta nel nostro piccolo show. Gli stranieri vanno pazzi per queste cose E’ stato un piacere. Toni è bravissimo... un vero animatore Non è mai riuscito a scegliere fra spettacolo e ristorazione... Gradisce un amaro? Rum Bevvi sorseggiando con calma, guardandomi intorno. C’era gente di tutte le provenienze e di tutte le età, uno spaccato del turista medio. Erano lì per divertirsi, per stare in compagnia. Bel posto, buon cibo, serata tranquilla, pizzaiolo da avanspettacolo, camerieri folkloristici ma ossequiosi e competenti ed io. Si, facevo parte della loro serata. Rispondevano tutti al mio sguardo. Fui costretto a ricambiare bicchieri sollevati, saluti e cenni di approvazione ed il motivo era uno solo, ero un cicloturista, uno che piglia la bici la trasforma in un camper e parte. La mia era lì, affianco al tavolo, fumante di chilometri, carica come un mulo ed aggressiva come un enduro. Il mio aspetto sano ma vissuto, l’abbigliamento inadeguato ma distintivo con gli sponsor italiani pasta e pomodoro, i guantini che non indossavo in quel momento ma che l’abbronzatura mi aveva tatuato sulle mani facevano di me un personaggio. Per molti ero l’incarnazione di un sogno irrealizzabile: mollare tutto e partire. Per tutti sarei stato il ciclista italiano di quella serata al ristorante italiano. Nei loro sguardi non c’era traccia dei dubbi che mi avevano assalito poche ore prima, anzi, in molti si leggeva chiaramente una forma di sana invidia. Qualcuno probabilmente me lo ha anche detto, in fiammingo o in qualche altra lingua, che avrebbe dato qualsiasi cosa per poter prendere il mio posto. Mi sono limitato ad annuire, a constatare quanto mi sentissi fortunato.
Saltai sulla bici e feci per partire Le posso offrire una soluzione per la notte mi disse il Maitre No, grazie Insisto, sarebbe nostro ospite scossi la testa, disarmato No. Siete le persone più ospitali che abbia mai incontrato, serberò un magnifico ricordo di questa serata, ma proprio non posso accettare Il Maitre scambiò uno sguardo con il proprietario e continuò Non c’è nient’altro che possiamo fare per lei? Mi avvicinai a Toni per ringraziarlo Non ti piace qui? Perché non rimani? Siamo paesani In effetti nei nostri spettacolari colloqui ad alta voce avevamo scoperto di avere gli stessi natali, a Mesagne in provincia di Brindisi. Toni, questo è uno dei più bei posti che abbia mai visto... ...ho capito, ti fermi solo quando arrivi a casa tua Esatto, quando il viaggio finisce Vattene... che mi fai venir voglia di scordarmi chi sono e partire... e scrivi!!!
Inforcai la bici e ripresi il viaggio con un sorriso incontenibile sulla faccia, per quello che mi lasciavo alle spalle e per quello a cui andavo in contro. Un po’ di bitume che separa due posti vicini ma ne unisce due lontani, questo è la strada. Un diritto di precedenza strappato alla natura se ci passi con la prepotenza dei mezzi a motore, un posto d’osservazione privilegiato se sei in bici.

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La fine di un viaggio
23/02/2011 14:15:42
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La luce intensa del mattino mi aprì gli occhi. Le poche ore di oscurità concesse dalle notti nordiche erano già finite. Mi stiracchiai con cautela temendo il morso del mal di gambe, niente, nessun dolore. Lo spazzolino faticava a vincere la resistenza delle labbra tese. Non era esattamente un sorriso, somigliava più ad un malinconico compiacimento.
Un tetto di nuvole grigio e basso copriva il cielo, nel silenzio. Il borbottio dell’acqua sul fornello a propano era l’unico rumore percettibile. Il vapore saliva senza volute, perpendicolare. Il fogliame, l’aria, tutto era fermo, come congelato in un fotogramma. Mi sedetti sotto un albero con la tazza fumante in mano e smisi di respirare.
La fine di un viaggio somiglia alla morte, e quella era la migliore scenografia che potessi chiedere. Beauty case, sacco a pelo, attrezzatura da campeggio, sistemai il bagaglio senza pensarci, con movimenti automatici. Tutto aveva trovato una collocazione nelle borse e nella mia mente. Vestizione, esercizi di straching, manutenzione rapida, primi tre chilometri con rapporto leggerissimo. Attività che, appena diventate abitudine, avrei dovuto smettere. Ma è possibile che i dolori passino proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si abitui ai ritmi, alla fatica, al cibo, al giaciglio, alle attività quotidiane, proprio l’ultimo giorno di viaggio? E’ possibile che ci si renda conto della propria situazione privilegiata proprio l’ultimo giorno di viaggio? No, non è possibile. E’ il nostro atteggiamento che cambia. Il vuoto nello stomaco che si sente quando un viaggio stà finendo non è fame, e nemmeno fatica. E’ la morte. Solo un piccolo assaggio, un antipasto per gradire. Tanto poi si torna a vivere, si rinasce. Perché un viaggio in bici ti cambia, ti rivolta come un calzino, stravolge le tue priorità, ti rimette al mondo. Rinasci perché tutto ha una fine, anche il tuo viaggio. Rinasci perché sei morto, se no come potresti? Riparti perché fermarsi non si può, che viaggio sarebbe?
Tutto appariva scolorito dalla luce soffusa, appiattito dalla mancanza di ombre. Sentivo lo scorrere del tempo, il senso di oppressione che una scadenza ravvicinata incute. Cercavo di registrare ogni momento, ogni scorcio, con ingordigia. Ma non si può guardare tutto, pretendere di imprigionare tutto nei ricordi. Qualcosa sfugge, inesorabilmente, restano solo emozioni fugaci, ottuse. Come quando cerchi di acchiappare la sabbia, più stringi più quella ti scivola via. Tanto vale accontentarsi dei granelli e vivere il viaggio come viene, con naturalezza. E ti ritrovi composto in bici, nella tua postura a testa bassa. Scegli di ignorare un panorama bellissimo ma sempre uguale. Perché viaggiare è assaggiare lasciando sempre un po’ di spazio, se passa l’appetito le gambe si fermano.
Percorrevo una pista ciclabile pavimentata con lastre di cemento lunghe dieci metri. Il passaggio da una lastra all’altra scuoteva la bici sovraccarica, una vibrazione sorda che scandiva un tempo sempre più rapido, incalzante. La pista era completamente deserta e proseguiva dritta a perdita d’occhio tagliando in due un bosco odoroso di muschio. Alberi e cespugli si alternavano senza fine come un rullo scenografico, sempre più veloce, nel silenzio. Mi abbassai per penetrare meglio l’aria ed inserii il rapporto più duro, nove metri per pedalata. Veloce, sempre di più, in un ritmo crescente, con le gambe sempre in spinta e la bicicletta perfettamente perpendicolare. Respirazione, pedalata, battito cardiaco, sobbalzi, tutto era sincronizzato, perfetto, eterno. La vegetazione si infittì. Le ruote planavano su un sottile tappeto di aghi di pino e foglie secche, vorticavano senza attrito come orologi a trentasei lancette, affamati di tempo. Nessun dolore, nessun affanno, nessun rumore molesto, nessun gas nocivo, solo velocità, dinamismo allo stato puro, volo e vertigine insieme, ebbrezza di piacere e tumulto di paura annodati nello stomaco.
Il mio viaggio è finito lì, in un bosco nei pressi di Uelzen. E’ lì che sono morto.

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ALESSIO

Il verde e il blu
23/02/2011 14:14:23
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La sala degli arrivi era invasa da una luce benevola. Mi inginocchiai. Il controluce trasformò in ombre nere i bambini che giocavano nel pulviscolo. Non era la prima volta che rimontavo la mia bici. La disposizione dei componenti sul pavimento, la sequenza dei movimenti, il marsupio porta attrezzi col taschino per la minuteria, tutto era previsto e rituale. Sembravo un veterano di guerra che rimonta il suo AK-47, mancavano solo la benda sugli occhi ed il contegno marziale. Le prime pedalate in salita confermarono i miei timori: troppo carico. Meglio una bicicletta leggera o ritrovarsi senza mutande di ricambio? E’ un dubbio amletico, ma quando è troppo, è troppo. Non riuscivo ad alzarmi sui pedali senza barcollare pericolosamente. L’inventario mentale per individuare qualcosa di cui sbarazzarmi partì in automatico.
Ero fra l’accendino e la chiave da tredici quando percepii un senso di ostilità da parte degli automobilisti. Mi osservavano, tutti. Sembravano facce disegnate sui finestrini. Dovevo avere qualcosa fuori posto. Forse il pantalone elastico aveva ceduto lasciando scoperte le italiche chiappe. Con qualche incertezza mollai il manubrio reso instabile dal sovraccarico e controllai con mossa pudica. Niente, tutto a posto. Ricambiai la processione di sguardi per capirne la natura. Andavano dall’ostile al commiserante, dall’incredulo all’angosciato. Archiviai quelle espressioni fra i messaggi indecifrabili e provai a far finta di niente, un po’ come fece Geppetto con la vocina proveniente dal suo ciocco di legno.
Percorrevo una strada a quattro corsie per senso di marcia che si biforcava in due grosse arterie, più da Big Apple che da Ville Lumière. Le indicazioni recitavano: a destra Paris Saint-Denis su cartello verde, a sinistra Paris Bondy su cartello blu. Non potevo certo proseguire per l’autostrada e decisi di attraversare le prime due corsie in direzione Paris Bondy, una cosa da matti. Le auto sfrecciavano ai centotrenta ed io cercavo di evitarle barcollando fra una corsia e l’altra con il collo lungo ed il fiato corto. Ricordo, in particolare, la faccia di un cinese che mi malediceva in madre lingua con le movenze concitate di Bruce Lee. Non erano passati venti minuti dall’atterraggio del Roma Ciampino - Paris Charles De Gaulle, il mio primo volo, il mio primo espatrio, il mio primo grande viaggio, il primo chilometro e già avevo rischiato di tirare le cuoia. Adoro i buoni auspici.
Al terzo svincolo con il solito cartello a sfondo verde ero scoraggiato. Sembrava che da quella maledetta tangenziale uscissero solo autostrade. Mentre mi determinavo a paracadutarmi da un cavalcavia mi resi conto di essere seguito da una Renault della Gendarmerie. Mi fecero segno di uscire allo svincolo successivo, ubbidii. La pattuglia era composta da un ragazzino allampanato e da una paffuta signora di mezza età che sembrava sua zia, sia nelle fattezze che negli atteggiamenti. Dopo una breve quanto sterile colluttazione verbale provai a spiegare per quale motivo mi trovavo su quella che loro chiamavano autoroute. Je vien par avion... aeroport Charles De Gaulle... en Italie les panneaux pour l’autoroute sont vert... pas bleu... compris? Riuscii a farmi capire più per la gestualità italiana che per il vocabolario francese. Mi diffidarono dal percorrere autostrade, che in Francia hanno segnaletica blu, e sparirono prima che provassi a chiedere loro indicazioni per il centro.
Mi ritrovai perso in una zona industriale, un dedalo periferico che la pausa domenicale rendeva, se possibile, più desolato. Ma l’avevo vista, solo per un attimo, percorrendo lo svincolo, bastava proseguire in direzione Sud-Est e sarei arrivato al primo traguardo, la Tour Eiffel. Incontrai i primi esseri viventi dopo sei chilometri di cemento: due cespugli avventizi ed un ragazzo magrebino alla fermata del bus. Pour la Tour Eiffel? Quello sembrò risvegliarsi da una anestesia totale. Ou? Il fatto che non avesse battuto i pugni sul petto per accompagnare quel suono mi meravigliò non poco. Le centre de Paris... l’Ile de la Citè... la Tour Eiffel? A quel punto il magrebino capì che non ero un borseggiatore, che non ero un mentecatto e, soprattutto, che non ero francese e decise di concedermi un plurisillabo. Tout droit Confidando nel mio misero francese scolastico svoltai a destra, ma la strada era chiusa e decisi di tornare dal ragazzo di poche parole a chiedere conto delle sue indicazioni. Mi catechizzò senza smentire la sua propensione alla sintesi. Tout droit e fece un cenno in avanti. A droite e fece un cenno a destra. Dritto e destra si dicono nella stessa maniera? Ma che lingua è? E’ come se noi italiani dicessimo dritto e a dritta pretendendo di essere compresi dagli stranieri.
La Tour Eiffel è talmente enorme che sembra di arrivarci svoltato l’angolo, e invece non arriva mai. Poi, quando ormai ti senti grande come un batterio dello yogurt, c’è un ponte sulla Senna e poi la torre. Ci sono dei posti nel mondo che ti fanno sentire protagonista anche se sei in mezzo alla folla. Posti magici, senza tempo. Arrivare alla torre in bici e’ un po’ come tagliare un traguardo, uno di quei traguardi che ti fanno respirare a fondo, e ti fanno sentire vincente, anche se sei ultimo e la gente ti dà le spalle.

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Col senno di poi
23/02/2011 14:14:12
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La tomba era una massiccia costruzione in marmo scuro, una sepoltura imponente ed austera grande come una piazzola da campeggio. Mal si addiceva ad un giovane cicloturista poco incline alle pomposità. Mi riconoscevo a stento in quella fotoceramica, mi faceva triste e smunto. Ero dispiaciuto più per come mi avrebbero ricordato che per il fatto che fossi morto. Il tumulo non è importante, lo so. Ma chi speri che venga a trovarti chiuso dentro un mausoleo? Avrei preferito qualcosa di meno sfarzoso, qualcosa di più originale, qualcosa di utile ed accogliente. Non so, una lapide LCD da 42 pollici sintonizzata su Sky Sport HD, un portagiornali con la Gazzetta sempre fresca, frigobar, due poltroncine ed una hostess in minigonna. Sai la calca? Un ululato illividì l’aria, improvviso come un tuono diurno. Si alzò un vento fortissimo. L’ululato si fece più intenso smuovendomi le ossa. Comparve un lupo enorme, ingobbito dalla ferocia, immobile. Mi riferisco a quell’immobilità sospesa e sbilanciata che precede il furore, quella di un centometrista sui blocchi. Ero immobile anch’io, per quanto mi sforzassi di scappar via, come imbustato sottovuoto. Poi il lupo mi attaccò, fulmineo. Fui svegliato dal mio stesso urlo. Albeggiava e la luce dava un aspetto diverso al prato che avevo scelto per trascorrere la notte. L’ululato rimbombava nelle orecchie. Mi misi a sedere con un colpo di reni. A tre metri c’erano delle croci in marmo bianco perfettamente allineate. La suggestione dell’incubo amplificò il terrore. Balzai in piedi senza uscire dal sacco a pelo. Saltellando mi avvicinai alla bassa recinzione che mi separava dalla strada. Poi l’ululato cessò improvvisamente lasciando il posto ad una voce. Un uomo in tenuta da giardinaggio blaterava qualcosa in inglese con aria costernata. Era lì vicino e brandiva uno di quei soffioni per spazzare il fogliame. Lo esortai a continuare il suo lavoro con un ampio gesto della mano.
Una volta recuperata la bici ripresi la strada oppresso da un senso di irrealtà, una sensazione simile ai postumi di una scossa ad alto amperaggio. In quel punto il leggero declivio si trasformava in una pendenza notevole, aggredii la salita spingendo sui pedali l’eccesso di adrenalina. Dopo pochi chilometri cominciai a sentire le prime fitte ai quadricipiti, sembrava che un maniscalco mi stesse praticando l’agopuntura con chiodi e martello. Continuai a pestare sui pedali a denti stretti, quasi in apnea. Presto i chiodi diventarono scalpelli e ricaddi sulla sella in preda al debito di ossigeno. Il cuore rimbombava nelle tempie. Mi sentii debole, sconfitto, infastidito. Avevo sognato un campo santo per poi scoprire di esserne inconsapevole ospite: roba da matti. Intanto la strada scollinava e la discesa mi riconobbe il credito. Approfittai della tregua per accantonare le suggestioni e cercare di capire come, senza avvedermene, fossi capitato in un cimitero.
La giornata precedente era stata terribile: il vento contrario e a raffiche, la pioggia battente, persino una foratura nei pressi di una fungaia i cui effluvi toglievano il fiato. Non c’era stato verso di trovare un riparo, pedalavo con i movimenti di un carillon a fine carica. Si era fatto scuro, gli occhi erano ridotti a fessure. Un tratto di strada in leggera discesa e dal fondo regolare mi cullò fino a farmi abbassare le palpebre. Sentii il piacevole bruciore che assale gli occhi stanchi una volta chiusi. Lo sbilanciamento della bici senza controllo mi risvegliò un attimo dopo. Un colpo di sonno in bici, finchè non ti capita non puoi credere sia possibile. Scavalcai la bassa recinzione di un giardino che ospitava grandi conifere. Era una notte priva di luna, buia come la cecità. Presi il sacco a pelo e lo distesi sul prato, sotto un grosso albero. Il manto erboso era molto curato e profumava di resina. Ero talmente distrutto da non riuscire a montare la tenda, e nemmeno a cambiarmi. Mi limitai a coricare la bici accanto a me, come fosse una donna, una donna priva di vita.
Invece, di donne e di uomini privi di vita ce n’erano tanti. John Varley, Laura Lippman, James Montgomery, Sara Montgomery, Nicholas John Kestell, sono tornato a salutarli, non potevo scappar via così. Le loro storie, i loro ricordi, i sentimenti, i pregi e gli umani difetti erano percepibili, riecheggiavano. Un prato così vale ben più di qualsiasi tappeto persiano. Ho trovato conforto e riparo in quel cimitero, e mi piace credere che neanche ai miei ospiti estinti sia dispiaciuta la mia compagnia. Probabilmente, messi davanti al proprio tumulo, anche loro avrebbero desiderato qualche comfort in più per i visitatori.
Con immenso rispetto.

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Nudo in mezzo ai carri armati
23/02/2011 11:11:40
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Migliaia di chilometri percorsi in bici, ore ed ore di pedalate sui cigli di strada di mezza Europa e lì, a pochi centimetri, le automobili, con le quali ti illudi di aver stretto un patto di non belligeranza. Passano così veloci, sono così robuste, chi le guida, spesso, vive la strada come un videogame, con quel distacco dalla realtà che trasforma l’impiegato medio in un pazzo scatenato. Un ciclista lo sa, ne è pienamente consapevole, sa che uno dei trecento sorpassi che subisce in un giorno potrebbe andar male, ma non vuol crederci, non può pensarci, si inventa una barriera impenetrabile fra se e le carrozzerie, tiene la destra e, suo malgrado, tocca ferro o carbonio dipende dalla bici. Esorcizza quel timore pensando al paesaggio, alla fatica, alla strada che vista da una bici è più bella.
Poi, un giorno, quel patto unilaterale viene infranto, senza preavviso, senza ultimatum, in una strada anonima, su una curva qualsiasi. Il mostro ti piomba addosso urlando il suo furore ma non lo senti arrivare, non lo vedi arrivare, non puoi far nulla, solo subire la vile aggressione, vile perchè alle spalle, vile perchè è facile giocare con la vita degli altri. Per istanti eterni sei una bambola di pezza, un inerme pupazzo alla mercè di un bambino violento e crudele, un grottesco feticcio a tua immagine rassegnato al suo rito vudù. Hai un braccio talmente a pezzi che sembra montato al contrario ma non fa male perchè ti senti fortunato, in fin dei conti non hai tirato le cuoia e ti è dato di soffrire, guarire, vincere scommesse baciandoti il gomito. I tuoi figli avranno ancora un padre e tu un incubo in più che ti sveglierà presto la mattina, quando l’aria è più fresca e pedalare è più bello e l’assenza di traffico ti aiuta a non sentirti una lumaca senza guscio, una sagoma di cartone al poligono di tiro, una disossata di bovino adulto sull’affettatrice del banco carni, a non sentirti come sei, nudo in mezzo ai carri armati.

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